Le alimentazioni sane e nutrienti dei popoli nativi

Bryonia (2021)
• Le alimentazioni sane e nutrienti dei popoli nativi,
dagli studi di Weston Price
Formato 20×14, 58 pagine.

Prefazione

Prima o poi si arriva a parlare di cibo, poco importa quale sia il contesto. Ma farlo in un’ottica di rottura con la civiltà moderna non è solo una questione di gusti e sapori. Prima ci si procura il cibo e si mangia, poi si “rompe”. Sembrano frasi fatte da vecchi rivoluzionari – fu forse Che Guevara a dire “non si fa la rivoluzione con la pancia vuota” – questioni inutili e secondarie per l’attivismo postqualsiasicosa oggi tanto in voga; discorsi banali per noi moderni umani con la pancia sempre piena. Ad ogni modo, prima o poi arriva il momento del pasto. Ma cosa mangiamo? A tal proposito, da diversi anni a questa parte se ne sentono di cotte e di crude. Salute, etica e politica si sono intersecate in maniera vorticosa creando un’enorme confusione degna di questa epoca di perdizione in cammino verso una società, a proposito di postqualsiasicosa, postumana. Tutto ciò perfettamente in linea con la logica capitalistica liberale del “più possibilità, più scelta, uguale più libertà”. La sezione “dietologia” in ogni libreria necessita di sempre più scaffali; esiste un libro e un autore per ogni nostro dubbio salutistico e/o morale, testi più “hardcore”, altri più “transizionistici”.

Se è vero che il veganesimo ha segnato un passaggio importante nella vita di molte persone negli ambienti radicali dalla fine degli anni ‘90 in poi, trascinato dalle allora esplosive lotte per la liberazione animale, è altrettanto vero che non si è ancora seriamente cominciato a discutere del suo disastroso lascito culturale. Termine ormai totalmente assorbito dal capitalismo agroindustriale, si profila come l’alimentazione più idonea alla “transizione ecologica” della green economy. Veganesimo a parte, è tutto il complesso dell’ideologia antispecista che sarebbe da rimettere in discussione. Ma questi discorsi e queste riflessioni penso siano inutili se non si pone come obbiettivo, anche a lungo termine, l’autonomia alimentare dal sistema di produzione e distribuzione industriale moderno. Ed è qui – tralasciando la compatibilità ideologica con l’antispecismo individuata da molti transumanisti – che potremmo renderci conto che l’idea di vivere senza mangiare e usare fino all’ultimo tendine e pelo ogni animale ucciso per il nostro sostentamento, sia una cosa che possa venire in mente solo a persone ormai troppo civilizzate e che hanno perso ogni contatto reale con una vita autonoma e in connessione con la natura. Cioè a noi moderni homo comfort, prendendo in prestito la definizione dal libro di Stefano Boni. Fermo restando che allevamenti intensivi e laboratori di sperimentazione animale debbano quanto prima prendere fuoco e illuminare le notti di una vita nuova e imprevedibile sulle macerie di questa civiltà, non possiamo non affrontare l’argomento. Non più.

E non possiamo tralasciare più neanche il discorso sulla salute. La lista di persone che hanno dovuto abbandonare il veganesimo, a volte a malincuore, per motivi di salute sono comunque molte, anche tra chi si conosce di persona. Ad ogni modo, l’intento non è una contro-crociata al veganesimo da parte di chi l’ha rinnegato, ma un invito a una seria discussione che metta insieme alimentazione, sussistenza e autonomia. Ed è innegabile, se non vogliamo fare come al solito la figura dei tontoloni occidentali che parlano solo di loro stessi, che bisogna dare uno sguardo a chi, in alcuni casi da millenni, non trae la propria sussistenza alimentare dai supermercati. Ed è in quest’ottica che gli studi di Weston Price possono essere d’aiuto: i resoconti sulle alimentazioni di popolazioni native ci forniscono informazioni importanti che sarebbe un peccato non cogliere. In primis perché sono stati scritti in un’epoca, inizio ‘900, in cui anche in Europa esistevano ancora popolazioni che vivevano per lo più di autosussistenza. E in secondo luogo perché mettono in evidenza l’importanza e la sacralità dei cibi animali, presenti in ogni popolazione, nessuna esclusa.

Per questi motivi trovo che parlare di alimentazione basandosi su queste considerazioni sia un valido punto di partenza. La conoscenza sul cibo manifestata da queste popolazioni è qualcosa di molto più prezioso, a mio avviso, dei concetti e delle idee esposte da filosofi o nutrizionisti occidentali e orientali moderni.

Ristabilire un contatto profondo col cibo che mangiamo è un percorso immenso se consideriamo il punto in cui ci troviamo oggigiorno. Speriamo che questo sia solo l’inizio.

h.

Introduzione

Nell’ultimo periodo si sta assistendo a un controllo sempre più invadente sui nostri corpi, ostentati come fragili, vulnerabili a qualsiasi evento avverso, fino ad essere necessitanti dunque dell’intervento medico per vivere.
Se non si effettuano mille e una analisi in gravidanza, si è degli incoscienti. Se non si vaccinano i bambini contro qualsiasi malanno, si è dei criminali. Se si accetta l’esperienza del dolore, si è dei trogloditi. E via dicendo per tutta la vita, passando dagli esami di “screening”, ai quali deleghiamo la consapevolezza del nostro stato di salute, fino al ricovero in fin di vita, incapaci oramai di morire o di lasciar morire.
Le politiche coercitive che si stanno moltiplicando su vaccini e controllo sanitario stringono i ranghi, ma nella maggioranza dei casi l’adesione è più che volontaria, è davvero voluta. La paura dilagante che si respira quasi dappertutto incita a pretendere ancora più controllo, più coercizione. Chi riesce a non farsi contagiare dall’ansia dell’altro, inizia a temere, però, di essere scovato, riconosciuto, etichettato, incolpato. E allora si adegua. È sempre più difficile opporsi al martellante “discorso unico”: non siamo più persone, con caratteristiche uniche e irripetibili, ma mere componenti di un sistema cibernetico che ci obbliga ad aggiornare costantemente il nostro stato alla sua architettura, basata su modalità operative che sono probabilistiche, statistiche 1 .

Inneggiare semplicemente alla libertà, di movimento, di scelte, di vita, o rivendicare diritti sociali ed economici, sono risposte che rimangono zoppe. Finché continuiamo a delegare la nostra salute al sistema sanitario, senza rimettere in discussione il potere di controllo che quest’ultimo esercita sulle nostre vite, inevitabilmente siamo alla sua mercé. Anche noi impauriti che non ci siano sufficienti posti in terapia intensiva.
Diventa impellente riappropriarsi della propria salute, in un percorso individuale e collettivo di autogestione della cura, che ci porterà, inevitabilmente, a un grande livello di presa di responsabilità. Singolarmente si diventa coscienti di fare delle scelte, delle scelte magari anche controcorrente e di assumerne le conseguenze. E questo forse ci allontana da alcuni discorsi vittimistici che si sentono fin troppo in questo periodo. Non nasciamo tutti in buona salute, non restiamo tutti in buona salute, è vero. Come è vero che spesso ciò non dipende da noi. Viviamo su di un pianeta inquinato, smog, pesticidi, elettromagnetismo… Esistono innumerevoli ingiustizie sociali, sfruttamento, guerre. Tuttavia, ciò non significa che il nostro margine di azione e la nostra autonomia di cura si annullino. Scegliere se prendere o meno un antibiotico, se fare delle sedute di chemio, se effettuare determinate analisi restano scelte importanti, come lo sono scegliere cosa mangiare e di conseguenza dove e come procurarsi il cibo.
La presa di coscienza individuale ha senso, però, solo se si accompagna a una tensione collettiva, a un rifiuto ad abbassare la testa e a un desiderio di lottare attivamente contro tutto ciò che avvelena la terra, i corpi e le anime.

Inserendomi in questo percorso di autogestione collettiva della cura, pubblico quest’opuscolo, che parla di alimentazione e lancia delle piste, a mio parere interessanti, per riappropriarsi di buone pratiche alimentari.
È una voce distante dai dogmi ufficiali, da quello che viene insegnato a scuola (piramide alimentare e simili…), non ha la pretesa di essere la Verità, ma resta lo stesso una breccia nella fortezza dei poteri agro-alimentari che dettano legge.
È una voce in rotta anche con i dogmi alternativi moderni (ma c’è forse da chiedersi: sono veramente alternativi? O si sposano benissimo con gli interessi dei poteri agro-alimentari?) come il vegetarianismo, pratica alimentare che chissà perché viene vissuta dai più come “esempio salutare” a priori.

Alla domanda che cos’è una buona alimentazione? Ognuno ha la sua risposta, le voci sono contraddittorie.
Nel marasma di opinioni, alcune hanno suscitato un mio forte interesse negli ultimi anni. Tra di esse ci sono le ricerche di Weston A. Price, svolte negli anni ‘30, e le più recenti elaborazioni del suo lavoro fatte dall’omonima fondazione nata negli USA nel 1999 2. Si differenziano da qualsiasi altra teoria alimentare perché si basano sulle pratiche concrete di tanti popoli nativi in buona salute in tutto il mondo, sulla loro sapienza ed esperienza. Ci mettono dunque di fronte a una visione dell’alimentazione che è innanzitutto concreta e non teorica. Al posto di ipotizzare quali alimenti vadano bene per popolazioni malate, come in genere le differenti scuole dietetiche fanno, si ribalta la questione, osservando umilmente quello che mangiano popoli in buona salute.
È inoltre plurale: le alimentazioni di popoli diversi sono diverse, noi possiamo rintracciare delle similitudini, che si declinano di volta in volta differentemente in base al contesto geografico, ambientale, culturale, sociale ed economico in cui vive il tal popolo. Quest’aspetto ci permette di adattare la sapienza dei popoli nativi al nostro contesto di vita e non semplicemente di fornire una lista di cibi adatti o non adatti universalmente.
Si tratta inoltre di pratiche collettive e non individuali, con forti implicazioni culturali: il cibo, forse più di qualsiasi altra cosa, crea comunione, comunità. Tuttavia, nella nostra era moderna, il cibo è diventato una questione privata, una scelta individuale. Ciò è stato reso possibile dal fatto che ci si rifornisce al supermercato, dove tutto è a nostra disposizione, già preparato, conservato, precotto, confezionato. In un mondo senza la grande distribuzione si tornerebbe inevitabilmente alla rete sociale di mutuo aiuto per produrre e trasformare il cibo.
Ed infine queste tradizioni alimentari hanno una valenza politica: fintantoché i popoli nativi sono riusciti a mantenere le loro alimentazioni tradizionali, non hanno necessitato delle cure mediche occidentali. Il cambiamento alimentare ha implicato un rapido deterioramento fisico, ma anche un altrettanto rapido sgretolamento delle loro pratiche culturali, sociali, spirituali, infine della loro identità.
Ribaltando causa e effetto dunque, forse soltanto ricreando alimentazioni nutrienti comunitarie e autonome si potrà ritrovare quell’indipendenza dal sistema sanitario che ci permetterà di opporci veramente al presente e futuro controllo sui nostri corpi, sulle nostre vite.

Ognuno ovviamente faccia le sue scelte, che si apra il dibattito…

Bryonia, Alpi occidentali, estate 2021.

Note

1 Si legga David Cayley, Interrogativi sulla pandemia in corso dal punto di vista di Ivan Illich, testo scaricabile da https://lanavedeifolli.noblogs.org/materiali/
2 www.westonaprice.org. La fondazione Weston A. Price, partendo dalla ricerca di Price, continua un lavoro di approfondimento scientifico sull’argomento e di divulgazione.