di Janet Kent
Ci raccontiamo storie per dare senso al mondo. Lo facciamo soli, come individui e insieme come società. Le storie che raccontiamo come società, e, uno per volta, quelle che raccontiamo come individui, riflettono i valori della nostra cultura. Riconosciamo quest’insieme come storie quando queste prendono la forma di mito, leggenda o racconto popolare. Siamo meno propensi a vederle come storie quando prendono la forma di insegnamenti religiosi, dell’opinione comune, di una lezione di storia o anche, della scienza.
Innanzitutto, sono consapevole che non è il momento migliore per mettere in discussione la scienza in quanto il settore è sotto attacco da parte di chi non vuol compiere quei passi importanti per mitigare il cambiamento climatico. Non voglio aggiungere benzina sul fuoco. Ma voglio, tuttavia, dare uno sguardo ai modi in cui la scienza è messa in atto e interpretata da parte dell’ordine e dall’ideologia dominante.
Un famoso esempio storico di questa influenza è l’utilizzo della teoria di Charles Darwin sulla selezione naturale da parte dei teorici sociali. Darwin, come molti di voi sanno, ha sviluppato la sua teoria osservando le diverse caratteristiche fisiche dei fringuelli nelle isole Galapagos. Osservò gli individui all’interno delle specie che meglio si erano adattati al loro ambiente dove si erano riprodotti per determinarne quindi il fenotipo della specie.
Quasi subito, dopo la pubblicazione della sua teoria, i teorici sociali sfruttarono questo concetto per spiegare il motivo per cui alcune razze e classi sociali fossero più portate a dominarne altre. Questi teorici, chiamati darwinisti sociali da parte dei loro oppositori, conclusero che gli Europei bianchi e benestanti erano geneticamente superiori alle altre tipologie di persone. Utilizzarono questa teoria per giustificare le brutalità della colonizzazione europea. Curiosamente, molti di questi teorici erano creazionisti e non accettavano le teorie di Darwin per come erano applicate a umani e animali, tuttavia trovarono l’estensione delle sue teorie utili per rinforzare le politiche di supremazia bianca.
Darwin stesso non era d’accordo all’applicazione della sua teoria alla società umana. Sfortunatamente, il lavoro dei darwinisti sociali ha avuto un’influenza più persistente di quella del biologo. Di fatti, il termine “la sopravvivenza del più adatto” fu coniata da Herbert Spencer, un sociologo e creazionista, per spiegare il motivo per cui alcune tipologie di persone dominavano altre. Il cugino di Darwin, Francis Galton, ha fondato il movimento eugenetico, la filosofia utilizzata per sostenere degli orrori come la forzata sterilizzazione dei poveri e delle minoranze e le scuole residenziali per i bambini e le bambine indigene qui negli Stati Uniti tanto quanto le politiche si sterminio di quelle persone considerate geneticamente inferiori nella Germania nazista.
Non tutti nel tardo ‘800 hanno aderito alle idee dei darwinisti sociali o con Darwin stesso. Dopo la pubblicazione della teoria di Darwin sulla selezione naturale, un uomo chiamato Peter Kropotkin, un aristocratico russo e biologo amatore (e anarchico, ndt), si mise in viaggio nelle zone selvagge della Siberia per osservare sul campo le teorie di Darwin. Nonostante vide in azione la competizione in natura, vide anche una notevole quantità di cooperazione. Di fatti, Kropoktin vide che la cooperazione, o mutuo appoggio come lui la definì, è il fattore essenziale per la sopravvivenza sia degli individui che delle specie animali. Osservò che la socialità è tanto una legge di natura quando lo è la lotta reciproca. Il suo libro è pieno di esempi che sostengono le sue tesi e il suo lavoro è stato sostenuto e abbracciato da parte di biologi evoluzionisti contemporanei come Stepen Jay Gould. Eppure si continua a enfatizzare il ruolo della competizione all’interno della natura sminuendo nel frattempo il ruolo della cooperazione. Come mai?
In questo paese, una delle storie più potenti è quella della supremazia dell’individuo. L’immagine americana tipica, l’emblematico cowboy solitario, fuori dalla norma, tenace e completamente autosufficiente è incisa profondamente nella nostra psiche. (Poco importa che l’esistenza del cowboy è dipesa dalle politiche governative di rimozione degli Indiani, dell’accaparrarsi gratuitamente la terra, dalla costruzione delle ferrovia.) Il culto americano dell’individuo permea il campo dell’indagine scientifica, raggiungendo persino i campi della botanica e dell’ecologia che in apparenza sono dei campi indipendenti, anche se, per fortuna, questa cosa sta cambiando.
Fatemi raccontare una storia famigliare. La storia di un albero. Questo potrebbe essere il tipico albero da giardino, da parco o quello che fa ombra sulla strada. Sta lì, solitario; tutti gli altri alberi nei dintorni sono stati abbattuti. Si è potuto allargare, crescere con una chioma rigogliosa bella tondeggiante con rami pieni di foglie. Mentre crescevo, e in realtà fino a tempi recenti, la scienza mi ha raccontato che quello era un albero rigoglioso e perfino felice. Capace di dominare lo spazio che abitava, espandendosi con radici e chioma per poter prendere tutto il sole, l’acqua e i nutrimenti possibili e tenendoli per sé. Tutti gli alberi si comporterebbero così se potessero, ci viene raccontato. Nella foresta, un albero deve competere con altri alberi per ottenere queste risorse. Ogni albero per conto proprio. Questo schema ha dominato l’indagine scientifica per quel che riguardava gli alberi fino agli ultimi due decenni. Allora, come spesso succede nella scienza quando emerge un cambiamento di paradigma, gli scienziati di tutto il mondo hanno iniziato ad osservare più in profondità le modalità con cui gli alberi assorbono e assimilano i nutrimenti. Attraverso un’ampia varietà di esperimenti, i ricercatori sono arrivati agli stessi risultati, che gli alberi in una foresta matura, con tutte le specie, condividono i nutrimenti. Gli scienziati hanno scoperto che gli alberi che hanno relativamente delle ubicazioni mediocri nella foresta, in terreni rocciosi o con un accesso limitato alla luce del sole o ai nutrimenti, hanno mostrato lo stesso grado di fotosintesi di alberi che nella stessa foresta hanno posizioni migliori. Come è possibile? Grazie alla rete micorrizica del suolo. Una vasta e intricata rete fungina che connette tutti gli alberi, scompone i nutrimenti del suolo che gli alberi non potrebbero assimilare da soli e distribuiscono e accumulano nutrimenti dal suolo e dall’aria che si trova tra di loro. Gli alberi della foresta utilizzano questa rete anche per comunicare quando sono minacciati. Se un insetto attacca un albero, l’individuo non è in grado di rispondere abbastanza velocemente per potersi difendere. Tuttavia può inviare dei messaggi sotterranei attraverso la rete fungina per avvertire gli altri alberi di aumentare l’asprezza nelle loro foglie o di inviare un richiamo di fenormoni benefici per richiamare insetti predatori.
Per queso servizio, per facilitare la ridistribuzione e la comunicazione tra gli alberi, questi condividono fino a un terzo degli zuccheri e dei carboidrati che producono attraverso la rete fungina. Lo scambio, la forza e la resilienza della foresta avviene grazie al cibo condiviso. È un sistema di mutuo aiuto tra vari regni. Quegli alberi solitari che riversano le loro grandi ombre nei giardini e nei parchi estendono le radici e le chiome per compensare l’assenza di connessioni. Fanno quello che possono, ma non possono rimpiazzare i nutrimenti condivisi e la difesa di una ricca e complessa rete di foreste.
Ora vorrei raccontarvi la storia di un altro albero. Questa è la storia del castagno americano. È probabile che abbiate sentito parlare della grande ruggine del castagno, forse il più grande disastro ecologico del XX secolo. Prima della ruggine, il castagno americano era l’albero dominante nella foresta orientale. Qualcuno ha stimato che un albero da legno duro su quattro nell’Appalachia era castagno. Questi alberi crescevano a più di 30 metri in altezza e 4 metri in larghezza. La ruggine arrivò tramite alcuni castagni cinesi piantati a Central Park nel tardo 1800. Durante la prima metà del XX secolo, più di 4 milioni di alberi di castagno sono morti per la ruggine. Mia madre nacque nel 1940 a Spruce Pine, NC. Durante la sua infanzia c’erano ancora abbastanza castagne nel bosco e suo padre ne portava a casa interi sacchi che raccoglieva nella sua camminata di ritorno dal lavoro dalla miniera di mica. Nel tempo in cui lei raggiunse l’età adulta i castagni e i loro cugini, la Castanea Pumila, erano scomparse. Il suono di questi giganteschi alberi che si schiantavano nella foresta era così diffuso che lo chiamarono Clear Day Thunder (Il tuono a ciel sereno, ntd).
Le radici e il colletto delle radici di questi alberi sono resistenti alla ruggine. Nel sottosuolo di tutte queste montagne, ci sono radici vive di castagno. Alcuni germogliano ancora. Crescono più o meno dai 3 ai 4 metri e mezzo in altezza per poi soccombere alla ruggine. Vivono raramente fino a poter dar frutto. Dove viviamo, su a Madison County, NC, c’è un boschetto di alberelli di castagno che spuntano dalle radici sotterranee vecchie di duecento anni. Li abbiamo guardati crescere per vari anni. Lo scorso autunno hanno raggiunto il loro limite e sono morti per la ruggine. Eravamo li nel boschetto a ripulire alcuni degli alberi morti quando abbiamo trovato a terra un riccio di castagno. Uno di quegl’alberi aveva dato frutto prima di morire. Ci siamo seduti in silenzio e con commozione, tenendo tra le mani quest’ultimo sforzo.
Fino a non molto tempo fa, la storia diffusa di questi piccoli alberi di castagno che emergevano dalle vecchie radici è stata quella dei castagno americani in quanto individui, che sono così grandi e forti e quindi riescono a perdurare nel sottosuolo nonostante la ruggine. Ma ora sappiamo che queste antiche radici viventi e i loro periodici tentativi di irradiare nuova vita al di fuori della terra non è una testimonianza della forza individuale dell’albero o persino della specie. È una testimonianza del loro livello di connessione. La foresta circostante sta tenendo vivi questi castagni. Il frutto dell’immagine di poc’anzi è il frutto della connessione.
Mentre ci muoviamo verso un futuro sempre più incerto, dobbiamo ricordarci la lezione del Castagno. Ricordare che non è la vostra forza personale ma la forza delle vostre connessioni che vi nutre e vi fa andare avanti quando il disastro colpisce. Vi chiedo ora di esaminare le vostre storie. A chi servono? É tempo di dimenticare la narrativa ingannevole della supremazia dell’individuo. É tempo di pensare come una foresta. La rete della vita dipende da questo.
** Questo breve testo è basato da una discussione che ho tenuto per Rough Draught, una serie di letture tenuta dal Marshall Container Company a Marshall, NC.
Bibliografia
Darwin, Charles. L’origine delle specie.
Kuhnm Thomas H. The Structure of Scientific Revolution.
Kropotkin, Peter. Il mutuo appoggio: un fattore dell’evoluzione
Solnit, Rebecca. Savage Dreams: A Journey into the Landscape Wars of the American West
Wohlleben, Peter. La vita segreta degli alberi: cosa mangiano, quando dormono e parlano, come si riproducono, perché si ammalano e come guariscono.
Tratto da: https://radicalvitalism.wordpress.com/2017/12/22/think-like-a-forest/
RADICAL VITALISM comprende gli scritti di Dave Meesters e Janet Kent (insieme a collaboratori occasionali). Janet e Dave portano avanti Medicine County Herbs, e sono due dei tre direttori e istruttori principali di Terra Sylva School of Botanical Medicine. Questi progetti hanno come base le montagne occidentali del North Carolina.