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La civiltà è una compilation di catastrofi

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La civiltà è una compilation di catastrofi
Traduzione con licenza poetica dell’introduzione al secondo numero di Oak.
Autunno 2020

Questa non sarà la piaga giustinianea che farà crollare Roma, e la popolazione non sarà falcidiata come nelle epidemie di civiltà più antiche. É proprio questo preciso fatto – nonostante il virus occupi una sorta di spazio liminale nella narrativa dominante – che rende precaria la civiltà infetta dal COVID-19, situata tra due scenari immaginari, senza per altro calzare in nessuno dei due. Il COVID-19 non è così mortale per la maggioranza della popolazione lavoratrice e sicché questa è la massa che costruisce e fa manutenzione a tutto l’ “impianto”, il lavoro deve continuare. È chiaro che, a livello globale, le risposte differenti alla pandemia dei vari Stati siano dovute a questa sua natura che va dalla malattia “normale” e innocua alla piaga altamente mortale, che ha ricevuto a tratti trattamenti rigorosi e repentini da parte dello Stato. Che questa poi non corrisponda a nessuna delle narrative dicotomiche non la rende fake o fasulla; è, semplicemente, un altro livello di questo momento di cambiamento accelerativo.

La pandemia è una fattore innegabile nello sviluppo e nella distruzione di una civiltà; non arriva per mano divina. Non è tanto un contesto buono per spiegare ogni cosa, come qualcuno ha proposto. È una conseguenza – una conseguenza sostanziale e fondamentale – della società di massa e della civiltà. Prende forma parallelamente, insieme e fra molte altre conseguenze. È un difetto di base, imprescindibile, che si è ripetuto molte volte negli ultimi 10 000 anni, e le pandemie devono essere riconosciute semplicemente per quello che sono; parte della panoplia, in continua evoluzione, dei fallimenti e delle menzogne della civiltà.

E mentre infuria questa piaga moderna continuano anche gli incidenti industriali e i gli errori tecnologici concomitanti. Il nitrato di ammonio lasciato in abbandono distrugge il porto di Beirut. Nuvole di gas nocivo invadono le aree devastate dall’uragano nel golfo del Messico. Quali altri disastri avranno luogo dalla data di pubblicazione di questa rivista? Semplicemente, quale altre tragedie incomberanno? Cosa potremmo aspettarci? Cosa attendere ansiosamente? Incendi, alluvioni, malattie, esplosioni; tutte cose che prenderanno forma sullo sfondo di uno scenario di disperazione inter e intra personale. Il tessuto sociale della tarda civiltà, tenuto insieme dall’identitarismo basato su posto di lavoro, chiesa, scuola e locale notturno preferito, si sta sgretolando e va via via assottigliandosi minacciando di usurare e squarciare fino in fondo il manto psicologico operativo di un paradigma divenuto ormai inutile.

Tutto ciò sta accadendo mentre il panorama politico a pensiero unico nelle città principali si sta uniformando alle tendenze politiche maggioritarie per le quali schierare assaltatori per le strade è diventato il manifesto di una guerra che è ormai chiaramente l’opposto di ogni tipo di liberazione. Le strutture di potere di questo mondo vanno espandendosi, prendendo la forma di metastasi man mano che il punto di vista delle masse diventa miope rispetto allo spargimento di sangue messo in atto per alleviare la disperazione quotidiana; una svolta verso la verità definitiva della morte dove la possibilità di una vita libera viene negata.

In queste scaramucce iniziali, la propensione millenaria per la guerra civile e la logica tautologica di chi ha più truppe di terra da poter schierare, non lasciano molto spazio per una ribellione contro gli Stati e le multinazionali che esercitano il grosso del potere nel mondo. Di fatto, queste forze sono spesso percepite come obbiettivi secondari sia dalle forze di sinistra che di destra.

Questa devoluzione settaria della resistenza è, sfortunatamente, un segno della tarda civiltà. Allo stesso modo, in America, gli osservatori distratti non sono riusciti a esaminare correttamente gli altri conflitti moderni, come quello in Siria, che ha mostrato il definitivo fallimento delle lotte settarie e la perseveranza delle strategie basate sull’auto-difesa geografica.

Ma continuiamo a lottare e ad usare il nostro telefono, fare razzie di iPads e forse persino trovare gioia nel saccheggio in stile berbero della struttura capitalista. James C. Scott, in Origini della civiltà, una controstoria, riportò una frase dei Berberi che diceva “la razzia è la nostra agricoltura”. In maniera simile, qualcuno potrebbe gioire con succinta felicità dicendo “razziare è il nostro capitalismo”. Ma qui, di nuovo, la mancanza di studio e considerazione di questa tattica si mostra per quello che è. I barbari diventano il “gemello oscuro” della civiltà che hanno saccheggiato e, similmente, la nostra resistenza, nata dalla pancia del leviatano stesso, deve resistere la tentazione di diventare la sua figlia oscura pronta a riarticolare di nuovo la sua eredità, vincolata da una patologia di consumo e comfort, controllo e addomesticamento.

Al contempo le tragedie personali continuano a moltiplicarsi. Morti da oppio, suicidi, solitudine, l’isolamento della socialità a distanza. Il luddismo offre un’altra via fatta di comunità concrete e autosufficienti, bolle di connettività che eludano la modalità commerciale del contagio. Sfortunatamente la risposta, fino ad ora, è stata al quanto reazionaria, quel tipo di libertà superficiale in stile americano, e non una strategia coerente di resistenza, diserzione e alternative visibili.

Gli anarchici sono stati coinvolti nella ciclica tragedia storica della violenza politica che serve solo a quella fazione delle élite di venditori di potere che vedono negli anarchici idealistici, e spesso naif, un utile strumento; milizie di terra incontrollate che, galvanizzate dalle tragedie reali, si cooptano in una lotta tra sette di produttori e impiegati, addomesticatori e falchi della politica.

Oak non sta dalla parte di nessuna di queste sette. I fascisti con le teste rasate sono un facile bersaglio, ma i rivoluzionari millenaristi potrebbero esserlo anch’essi. Non ci sarà la grande pulizia, non ci sarà una resistenza di massa con la propria narrativa, non ci sarà una mappa politica di cosa accettare e cosa rifiutare, nessun gergo linguistico da poter adottare per essere efficaci e nemmeno ci salverà il saper tirare le giuste corde del cuore. Non c’è nulla, se non il mondo che abitiamo – anche nel nostro patologico rifiuto della sua esistenza – un vivere, respirare, pulsare e pensare a ciò che siamo. Gettarsi dalla nave. Fanculo internet, staccare le spina, nutrire noi e la nostra comunità. Questo è il momento; come lo è sempre stato. Possiamo saccheggiare, razziare, rubare e difenderci; tutto ciò che rigetti questa centralizzazione, questa istituzionalizzazione di ogni nostro bisogno, desiderio e gioia. Abbandonare la nave significa anche farla affondare ed equipaggiare le comunità affinché siano sussistenti significa sbrigliare noi stessi e noi stesse dal bavoso tratto digerente del Leviatano.

Con spade e ami da pesca, fucili e cestini da raccolta… Oak
www.oakjournal.org

 

Immunità dei Nativi

Da diverso tempo riflettevo sulla teoria del contagio, su come si diffondano malattie ed epidemie e, diffidando dalle teorie dominanti che tanto vengono propagandate dalla medicina, dallo Stato e dai media, ho sempre creduto che una persona che cura la sua alimentazione e il suo modo di vivere e magari non viva e lavori in posti avvelenati e avvelenanti abbia buone probabilità di non ammalarsi o di ammalarsi lievemente persino quando è confrontata a malattie virulente. Mi mancava solo un tassello, non riuscivo a spiegarmi lo sterminio dei popoli nativi a causa della diffusione di epidemie portate dagli europei durante i periodi storici del colonialismo dei “nuovi mondi”. Pensavo che queste popolazioni fossero sane e in forma, mangiassero bene e non fossero avvelenate dalle nocività già allora presenti in Europa. Questo articolo di Sally Fallon spiega molte cose a riguardo, potrebbe essere l’inizio di un’indagine che dovremmo spingerci a compiere visto i tempi “pestilenziali” in cui viviamo e ripensare radicalmente al modo in cui viviamo, mangiamo e ci curiamo.

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Immunità dei Nativi
Sally Fallon Morell

tratto da: https://nourishingtraditions.com

Ho creduto a lungo che i popoli nativi – nelle Americhe, in Africa e nei Mari del Sud – iniziarono a soffrire per le malattie infettive non appena entrarono in contatto con i coloni europei. Eppure, in molti mi hanno chiesto come possano persone così sane soccombere alle malattie così rapidamente.

La mia risposta – non proprio delle migliori – è stata che nelle culture tradizionali che non avevano avuto contatto con le malattie infettive, le persone non avevano avuto la necessità di erigere un sistema immunitario forte durante la crescita, così che la loro dieta ricca di cibi nutrienti era tutta veicolata a costruire un corpo forte, una vista pronunciata e un buon udito; e teorizzai che non avendo mai consumato zucchero e pertanto non avendo bisogno di un pancreas sovralimentato che producesse molta insulina, queste persone erano più vulnerabili agli effetti dello zucchero quando lo consumavano. Ora ritengo che questa spiegazione sia soltanto un’altra versione degli argomenti sull’“inadeguatezza immunologica” e la “mancanza di resistenza genetica” che permettono a dottori e funzionari della sanità pubblica di ignorare la causa principale della malattia, sia nel vecchio che nel nuovo mondo: la malnutrizione.

Recentemente ho appreso che i popoli nativi non contrassero le malattie infettive appena vennero in contatto con gli europei. Per esempio, i pescatori e i primi esploratori visitarono le acque del nordest della costa Atlantica tra il XV e il XVI secolo ma non abbiamo testimonianze storiche sull’esistenza di malattie o epidemie tra le popolazioni aborigene durante quel periodo. Secondo Raymond Obomsawin, nella sua ricerca Historical and Scientific Perspectives on the Health of Canada’s first Peoples (Prospettive storiche e scientifiche sulla salute dei primi popoli del Canada, 2007), “poiché lo scopo principale di questo primo contatto era lo sfruttamento commerciale delle risorse naturali, qualsiasi prova visibile della debolezza fisica o della malattia degli abitanti indigeni avrebbero sicuramente suscitato un vivo interesse.” Invece in questi primi rapporti ci si meravigliava della buona salute e della solida costituzione dei nativi americani.

Obomsawin fa notare che i primi focolai registrati di malattie infettive tra i nativi americani che vivevano nelle valli di Ottawa si verificarono tra il 1734 e il 1741. Champlain stabilì il primo insediamento europeo in Quebec sul fiume San Lorenzo più di cento anni prima, nel 1608, e non fu prima del 1800 che il vaiolo, il morbillo, l’influenza, la dissenteria, la difterite, il tifo, la febbre gialla, la pertosse, la tubercolosi, la sifilide e varie altre “febbri” si diffusero tra la popolazione aborigena.

A metà del XVIII secolo, la vita dei nativi americani aveva subito gravi sconvolgimenti. Come risultato di una cattura intensiva, le popolazioni di selvaggina si erano ridotte, compromettendo gravemente la disponibilità di cibo e pelli per produrre abbigliamento e calzature. Durante questo periodo lo zucchero, la farina bianca, il caffè, il tè e l’alcool arrivarono sulle navi mercantili, che i coloni utilizzarono come merci di scambio con le pellicce degli indiani.

Lo stesso schema si riprodusse sulla costa occidentale, dove la pesca del salmone si esaurì notevolmente a metà dell’Ottocento. Questi popoli del nord-ovest parlavano di “barche della malattia” o di “canoe della pestilenza”, chiamando così le navi marittime spagnole e britanniche che arrivavano con sempre più frequenza. Portarono il vaiolo, ma anche i cibi che li resero vulnerabili al vaiolo. Una nave da carico a vela dell’epoca da 30 metri poteva trasportare fino a 360 tonnellate di “beni“, o forse dovremmo dire di “mali“.

I popoli tribali che dipendevano in larga misura dal bufalo non furono colpiti dalle malattie fino agli inizi degli anni ‘70 dell’Ottocento, quando questi animali furono depredati attraverso lo sfruttamento e le campagne volte a uccidere le mandrie da cui i nativi dipendevano.

Secondo un rapporto del governo canadese, La trasformazione degli aborigeni dallo stato di buona salute che aveva impressionato i viaggiatori europei a uno di cattiva salute. . . peggiorò man mano che le fonti di cibo e di vestiario ottenibili dal territorio venivano meno provocando il collasso delle economie tradizionali. E peggiorò ancora da che questi popoli nomadi furono confinati in piccoli appezzamenti di terra dove le risorse e le opportunità per un’igiene naturale erano limitate. E peggiorò ulteriormente quando le loro regole, valori, sistemi sociali e pratiche spirituali di lunga durata furono minate o messe fuorilegge.”

Per quanto riguarda la colonia di Plymouth, i pellegrini non furono i primi europei nella zona. I pescatori europei avevano navigato al largo delle coste del New England, avendo numerosi contatti con i nativi americani, per gran parte del XVI e XVII secolo, e il commercio di pelli di castoro iniziò nei primi anni del Seicento, prima dell’arrivo dei pellegrini nel 1620.

Nel 1605, il francese Samuel de Champlain fece una vasta e dettagliata mappa della zona e delle terre circostanti, mostrando il villaggio di Patuxet (dove fu successivamente costruita la città di Plymouth) come un fiorente insediamento.

Nel 1617-1618, poco prima dell’arrivo del Mayflower, una misteriosa epidemia spazzò via all’incica il 90 percento della popolazione indiana lungo la costa del Massachusetts. I libri di storia danno la colpa all’epidemia di vaiolo, ma una recente analisi ha concluso che potrebbe essere stata una malattia chiamata leptospirosi. (Ancora oggi, la leptospirosi uccide quasi sessantamila persone all’anno.)

Sia gli animali selvatici sia quelli domestici possono trasmettere la leptospirosi attraverso l’urina e altri liquidi; i roditori sono il vettore più comune e il castoro è un roditore. Durante la primavera, i castori, maschi e femmine, secernono una sostanza appiccicosa e pungente chiamata castoreo per attirare altri castori, spesso depositandola in piccoli “cumuli odorosi” vicino alle piste che conducono alle loro tane. I cacciatori di pellicce utilizzavano il castoreo per profumare le trappole in modo da catturare i castori. Vendevano addirittura il castoreo agli europei, che lo apprezzavano come base per profumi floreali. Forse questo primo caso di malattia era una specie di vendetta dei castori, diffusa dall’organismo leptospirosi nel loro castoreo: ricompensa per lo sfruttamento della loro specie, per averli cacciati quasi fino allo sterminio!

Comunque, il punto è che le malattie infettive che hanno causato così tanta sofferenza non sono arrivate che dopo un periodo di declino nutrizionale, nel quale la paura e la disperazione quasi sicuramente hanno svolto un ruolo importante. Quando la malattia scoppiava in un villaggio, gli afflitti si trovavano spesso abbandonati da chi era ancora sano, quindi non avevano nessuno che si prendesse cura di loro. Incapaci di procurarsi l’acqua da soli, in genere morivano di sete. Ciò potrebbe spiegare perché i tassi di mortalità durante le epidemie erano molto più alti per i nativi americani (in genere il 90 percento) rispetto agli europei (in genere il 30 percento).

Questo non vuol dire che l’esposizione a nuovi microrganismi non abbia un ruolo nel causare epidemie di malattie infettive, ma è improbabile che questi nuovi organismi causino malattie in individui ben nutriti e con un forte sistema immunitario.

Veniamo ad oggi. Abbiamo una popolazione di bambini estremamente malnutriti. Sia la cattiva alimentazione, sia la pratica della vaccinazione possono indebolire il sistema immunitario. (Vedi il libro di Tom Cowan per una spiegazione di come le vaccinazioni deprimono piuttosto che migliorare il sistema immunitario.) E grazie alle vaccinazioni, stiamo anche assistendo all’emergere di nuove e più virulenti forme di malattie come il morbillo e la pertosse. Il dottor Cowan e molti altri prevedono una recrudescenza di enormi epidemie, focolai di malattie infettive contro le quali la medicina moderna sarà impotente. Cari genitori, per favore, cercate di essere preveggenti e proteggete i vostri figli in anticipo: date loro da mangiare cibi ricchi di nutrienti, in particolare cibi ricchi di attivatori liposolubili1, e dite semplicemente No ai vaccini.

1 Ndt. Secondo il Dr. Price, erano proprio le vitamine liposolubili, gli elementi nutritivi più preziosi delle diete degli indigeni. Li chiamò “attivatori”, perché erano fondamentali per assimilare tutti gli altri elementi presenti nei cibi, come vitamine e minerali. “È possibile soffrire di gravi carenze di minerali anche se questi sono abbondantemente presenti negli alimenti, perché senza i fattori di attivazione liposolubili non possono essere utilizzati”. I cibi che forsniscono all’uomo questi preziosi “attivatori liposolubili” si trovano nel burro, nelle uova, nelle frattaglie, nel pesce e nei grassi animali, tipo il lardo. Come si vede, per la gran parte, si tratta di cibi che in questi decenni sono stati, a torto, demonizzati per il loro contenuto di colesterolo e di grassi saturi. Oltre alle due vitamine liposolubili già allora conosciute, la vitamina A e la D, nella diete native il Dr. Price ne aveva anche individuata un’altra che chiamò “Fattore X” ora riconosciuta come vitamina K2. Un fattore/attivatore estremamente potente nel catalizzare l’assorbimento intestinale dei minerali. Si trovano in alcuni cibi che i “nativi” consideravano sacri, come diversi organi animali, soprattutto il fegato, l’olio e le uova dei pesci, il burro prodotto con latte di mucche che avevano pascolato in primavera e autunno mangiando esclusivamente erba a rapida crescita. Questo fattore salutare, sarebbe praticamente scomparso dai cibi moderni industriali.

• Sally Fallon Morell è conosciuta in quanto autrice di Nourishing Traditions: The Cookbook that Challenges Politically Correct Nutrition and the Diet Dictocrats. Questa guida ben studiata e stimolante ai cibi tradizionali contiene un messaggio sorprendente: i grassi animali e il colesterolo non sono cattivi ma fattori vitali nella dieta, necessari per la normale crescita, il corretto funzionamento del cervello e del sistema nervoso, protezione dalle malattie e ottimale livelli di energia.
L’interesse di Sally per il tema della nutrizione è iniziato nei primi anni ’70 quando ha letto Nutrition and Physical Degeneration di Weston A. Price.
Sally Fallon Morell è presidente fondatrice della Weston A. Price Foundation e direttrice della rivista trimestrale della Fondazione.

La civiltà del Contagio… o il contagio della Civiltà

La civiltà del Contagio o… il contagio della Civiltà.

Quello che stiamo vivendo in queste settimane è qualcosa che non ha precedenti per la nostra generazione e forse neanche per quella precedente. Ma persino il confronto con i periodi delle guerre mondiali potrebbe portarci fuori strada. Nonostante gli sproloqui nazionalisti, gli inni nazionali, e i militari nelle strade, non siamo in guerra. La minaccia qui non è il bombardamento, la paura durante un’epidemia è qualcosa di più introspettivo, e al contrario della guerra dove l’attesa e l’incubo che il tuo soffitto cada in mille pezzi ci porta a stare vicini e avvinghiati in un caldo abbraccio con le persone a noi care, la risposta emotiva al contagio è una sana e responsabile distanza da chi ci sta accanto. Un aperitivo analcolico di quello che potrebbe essere il collasso della civiltà moderna, servito con tutte le precauzioni del caso: nonostante la scarsità delle bevande gli stuzzichini sono comunque garantiti. Ma lo scenario è davanti ai nostri occhi e ciò che più dovrebbe preoccupare non è tanto la risposta repressiva dello Stato e i suoi dettami, a quello forse dovremmo esserci almeno un po’ abituati, ma alla sconcertante risposta della massa addomesticata, ormai incapace di rispondere per conto proprio ad alcun che se non al proprio smartphone. E come in tutte le epoche passate, quando il panico si diffondenelle masse queste si apprestano alla caccia: all’untore, alle streghe e ai non allineati ai dettami del “bene comune”.

È ormai evidente cosa lega oggigiorno in maniera quasi totalizzante le masse, l’opinione pubblica, la politica, i mass media. Qualcosa trasversale ad ogni colore politico, dai destri ai sinistri, dagli intellettuali ai cafoni di quartiere, qualcosa che in una società sempre più divisa tiene tutti insieme appassionatamente: la salute, o la non salute, o per essere più precisi la Scienza medica. Chi si è opposto alla recente campagna di obbligatorietà dei vaccini è stato distrutto, deriso, represso, attaccato da ogni punto di vista grazie a un vittimismo becero che ha reso i genitori che hanno fatto resistenza assassini di poveri bambini con gravi patologie usando come veicolo la propria prole a mo’ di untori. E quest’attacco è arrivato persino da alcuni così detti fautori dell’anarchia, come la FAI e riviste affini, mentre anche tutto il resto di un movimento radicale più ampio (resto degli anarchici compresi) non ha preso neanche in considerazione la questione.

Non c’e da sorprendersi quindi che la diffusione del Covid19 abbia travolto e avvolto nel terrore la quasi totalità delle persone civilizzate di quasi tutto il mondo. Ma non tutti ovviamente credono alla favola istituzionale, voci fuori dal coro e pensieri in controtendenza ce ne sono. Nella psicosi del confinamento domestico, nel mondo dentro la rete di internet girano video, testi, messaggi. Teorie cospirazioniste, confutazione dei dati, visioni alternative della salute e quant’altro. Inutile entrare nei dettagli, se state leggendo questo testo avrete letto e visto già molto altro.

Ogni epidemia della storia si diffonde all’interno di società che hanno in diverse maniere degradato il loro modo di vivere, partendo da luoghi spesso sovraffollati, inquinati, dove la maggioranza delle persone vive con distacco e degrado il loro stato di salute generale e abituale. Dove l’approvvigionamento dei bisogni primari, cibo e tecnologie atte alla sopravvivenza, non è più nelle mani di piccole comunità con modalità più o meno diffuse all’interno della popolazione ma sono sempre più accentrate nelle mani dei pochi gruppi elitari dei vari settori. Più ci si allontana dalla produzione diretta del cibo che si mangia o al peggio dalla consapevolezza di sapere almeno da dove questo arrivi, più si perde la capacità di gestire in modo autonomo la propria salute e più quest’ultima diventa precaria. Illuminante da questo punto di vista, ma in generale dal punto di vista dell’alimentazione, è il lavoro di Weston A. Price che negli anni ‘30 del novecento girò il mondo e incontrò numerose popolazioni “primitive” (definite tali perché ancora si producevano o si procacciavano la maggior parte del cibo) con l’intento di scoprire cosa mangiassero e qual’era il loro stato di salute. Era un periodo storico dove molte di queste popolazioni stavano man mano venendo in contatto con il progresso e il cibo industriale. Notò che quando queste popolazioni mangiavano il “loro cibo” il loro stato di salute era ottimale, i denti perfettamente posizionati e senza carie (lui era un dentista) e malattie ed epidemie che dilagavano nel resto delle società che andavano via via globalizzandosi non si presentavano invece fra queste. Quando invece le stesse etnie di persone venivano in contatto con il progresso, la ferrovia o la strada, e iniziavano ad avere a disposizione i cibi moderni come zucchero, farina bianca, marmellate, cioccolata, e cibi in scatola, la loro salute fisica e mentale precipitava. Le malattie che oggi consideriamo “normali” come quelle di origine cardio-vascolare, diabete, cancro, carie, non erano affatto normali tra gli individui di queste popolazioni. Interessante anche il fatto che in queste comunità “primitive” la consapevolezza sulle proprietà dei cibi era molto alta e quelli più nutrienti venivano destinati alle donne durante la gravidanza o ai bambini in fase di sviluppo. Il dottor Price notò come la dieta di questi popoli fosse molto più ricca di vitamine (o attivatori) liposolubili, in particolare la vitamina A, D e K2 che troviamo abbondantemente nel pesce, negli organi interni e nel grasso di animali che sono cresciuti pascolando all’aperto. La lezione che possiamo trarre da questi popoli del passato e da molte altre comunità indigene che ancora popolano angoli di questo pianeta è enorme, in termini di autoproduzione del cibo, di autogestione della salute e di indipendenza dal sistema ipertecnologico globalizzato.

Nel corso di meno di un secolo questo residuo di consapevolezza e di pratiche di vita è quasi del tutto scomparso nel mondo civilizzato e globalizzato e le conseguenze sono sempre più devastanti. Ma persa questa consapevolezza si perde anche la capacità di porsi le giuste domande. Ci si chiede quindi se il virus è mutato e in che cosa piuttosto di capire come noi e lo stato di salute del nostro sistema immunitario siamo mutati. La maggior parte della gente accetta di essere relegata in casa, ad abbuffarsi probabilmente di cibo, collegati tutto il giorno a internet in mezzo alle radiazioni elettromagnetiche sempre più invadenti del WI-FI, senza prendere il sole e stare all’aria aperta, in uno stato sempre maggiore di stress e psicosi, tutte cose che aggravano lo stato del sistema immunitario. La criticità dei contagiati quindi aumenta, ma la colpa viene data al virus che è più cattivo e comincia a prendersela con i più giovani.

Più che metterci una mascherina sul viso dovremo toglierci le bende dagl’occhi. Ma forse non è il momento giusto, bisogna prenderne atto. Inutile dire a chi si è tagliato e sta sanguinando che dovrebbe imparare ad usare meglio il coltello.

Non c’è da stupirsi, come già detto prima, che gli epicentri della pandemia siano spesso aree altamente inquinate e con un’alta densità di popolazione. In una parola nelle città. Ed è sempre stato così. La civiltà è la società degli abitanti delle città, sinonimo di progresso e innovazione tecnologica. Nondimeno dovrebbe essere ormai chiaro che è anche il luogo dove lo stato di salute dei suoi abitanti diviene sempre più debilitante. Ma nonostante queste evidenze ormai eloquenti, e questa pandemia è soltanto l’ultimo di una lunghissima serie di eventi che hanno portato alla luce questa innegabile verità, la maggior parte delle persone civilizzate, e la maggior parte anche dei movimenti radicali continua a pensare che è questa la casa dell’uomo moderno e che sia impensabile ripensare un modo di vivere differente. Sarà quindi la tecnologia a salvare dal disastro questo mondo globalizzato al collasso.

E su questo non c’è alcun dubbio. La risposta a tutti i nostri problemi attuali sarà sempre più tecnologia. Lo stiamo vedendo ora durante l’epidemia, nuove tecnologie mediche (farmaci e vaccini), nuove tecnologie per l’educazione scolastica a distanza, nuove tecnologie di controllo (apps, droni, ecc…). E questo è solo l’inizio. Dopo questa esperienza chi non vorrà la diffusione del 5G per migliorare la connettività globale, chi non vorrà obbligare tutte le persone di questo mondo a vaccinarsi con ogni sorta di vaccino per salvaguardare le fasce più deboli della società (fasce in continua espansione visto la degenerazione psico-fisica attuale).

La via per il transumanesimo, la fusione dell’uomo con la macchina, è ormai aperta da molto tempo, e da un certo punto di vista è l’unica via per salvare la società industriale e tecnocentrica moderna e l’essere umano che le dà vita.

L’altra via, l’unica altra rimasta, è rinnegare tutto questo sistema ipertecnologico, la città, la vita moderna, la scienza medica, e prendersene tutte le responsabilità e conseguenze del caso. La civiltà moderna è insostenibile, c’è chi lo dice e lo sostiene ormai da decenni. Ma non ci si può certo aspettare un tale approccio dalle masse addomesticate che non vedono l’ora di tornare ai loro happy hours. Questo appello è rivolto principalmente ai movimenti radicali che nelle loro differenze cercano un cambiamento concreto della vita di tutti i giorni. Per quanto ancora bisognerà credere nella tecnologia, nell’assistenza sanitaria, nella scuola, nella società dei diritti. Il lavoro necessario per intraprendere questo cammino è immenso, faticoso e intergenerazionale. Ma l’alternativa sarà sempre e soltanto più asservimento alla tecnologia e alle élite che la governano. Riprendersi in mano la nostra salute e quindi l’approvvigionamento di cibo salutare è un passo decisivo.

La nostra dipendenza dal sistema di produzione e distribuzione è uno dei nostri più grandi limiti. E sono molti i miti che dovremo sfatare, oltre a quello tecnologico e del progresso, per imbarcarci in questa impresa. E soprattutto disintossicarci dalle politiche identitarie di ogni tipo. Ma questo non è esattamente un appello per creare un nuovo movimento globale anti-civ. È un invito a creare comunità stabili che puntino a riprendersi in mano le proprie capacità, a partire dalla nutrizione e dalla salute, orizzontali ed egualitarie, in grado di generare solidarietà e mutuo aiuto sia all’interno che verso altre comunità con caratteristiche simili. Non è per niente un’idea nuova, è l’idea anarchica nella sua essenza, ciò che molte comunità umane indigene ancora presenti su questo pianeta fanno da millenni.

Avremo un compito molto urgente appena questa emergenza sarà finita e si avrà la possibilità di tornare liberamente nelle strade in gran numero. Fare manifestazioni e azioni dirette di ogni tipo per mettere le mani avanti su tante cose che vorranno imporci da qui a breve: 5G, vaccinazioni obbligatorie e implemento tecnologico securitario. Sarà un primo passo per far comprendere che la nostra salute non dipende dall’OMS e dai nuovi inquisitori del PTS (Patto trasversale per la scienza, quelli che hanno il compito di definire e denunciare come fake news tutto quello che si oppone al sistema sanitario istituzionalizzato). Qualcuno sta cercando di farlo già ora in “clandestinità”, ma sarà dopo che non potremo più permetterci il lusso di stare in silenzio.

La nave dei folli si schianterà contro l’iceberg, per allora dovremo aver imparato a nuotare.

Hirundo, Marzo 2020

Riferimenti

Weston A. Price, Nutrition and physical degeneration, prima edizione 1934.

La Comune di Olympia

SOLAMENTE PER USO EDUCATIVO 

tratto da Black And Green Review#5 – Inverno 2018
La Comune di Olympia

Olympia, WA
17-19 nov, 2017

Il 16 novembre 2017, l’oleodotto di Keystone ha fatto fuoriuscire 800˙000 litri di petrolio nella vicina Amherst in South Dakota. Come se nulla fosse, soltanto il giorno dopo, l’oleodotto Keystone XL (una succursale affiliata dell’oleodotto Keystone) ha ottenuto il permesso di via libera per continuare la sua prassi estrattiva.

Il giorno successivo, un gruppo di anarchici, resistenti indigeni e attivisti hanno risposto fermamente alla fuoriuscita di petrolio della Keystone in Olympia, Washington (terra abitata dai Nisqually e dai Squaxin) bloccando i binari della ferrovia. Così è cominciata la breve, ma notevole, storia della Comune di Olympia.

Questo blocco aveva già un precedente.

Un anno prima, un gruppo di attivisti e resistenti indigeni occuparono lo stesso posto in solidarietà con l’accampamento di Standing Rock e i comitati in difesa dell’acqua sfidando l’oleodotto Dakota Access (DAPL), che diventò l’Olympia Stand, un blocco sulla ferrovia che portava al porto di Olympia. L’obbiettivo era esplicito: nel 2012 il Porto firmò dei contratti per iniziare a gestire le spedizioni degli agenti di mantenimento di ceramica (proppant) utilizzati nel processo di fratturazione idraulica o fracking.i

Quei contratti permisero a Olympia di prendere i proppant dalla Cina, dove erano prodotti, e portarli direttamente alla falda di scisto di Bakken tramite la ferrovia. Bakken – una delle più grandi fonti di gas naturale delle Americhe – che comprende una porzione di terra che va dal Montana fin dentro il Nord Dakota, è anche la parte centrale del progetto Keystone XL.

Questo mise Olympia in relazione con Standing Rock, cosa che chiaramente non passò inosservata. Il blocco di Olympia durò 7 giorni e mise in luce la questione del proppant che viaggiava partendo dal porto, cosa che era stata ufficialmente e pubblicamente negata. La protesta ottenne un ampio supporto che culminò in uno scontro finale intenso ed emotivo quando il blocco venne attaccato di forza della polizia. La protesta terminò con una dozzina di arresti.

Ma, come la Comune di Olympia svelò attraverso un diligente lavoro sul FOIA (Freedom of Information Act, ndt), quei 7 giorni “costarono al colosso del petrolio Halliburton due operazioni di fracking e a sua volta l’Halliburton recise i contratti con il Porto di Olympia.”ii

Non male per 7 giorni.

Quando la protesta riemerse un anno più tardi, era più forte, più ampia e decisamente più anarchica. Per arrivare direttamente al punto, c’erano molti più anarchici anti-civ. Questo fece uscire gli elementi più rumorosi e ribelli, come traspariva in comunicati che rievocavano Green Anarchy, o dei tempi in cui gli anarchici anti-civ leggevano ed erano influenzati dalle pubblicazioni di Venomous Butterfly senza prendere alla lettera le parti di ispirazione più egoista.

Senza dubbio la comune non era totalmente anarchica. I comunicati facevano capire che non esisteva una coesione totale. È importante ricordarlo visto che anche i libertari socialisti e l’IWW “Green Caucus” (seriamente!) [I “verdi” dell’Industrial Workers of the World, il sindacato dei lavoratori, con tanto di bandiera nero verde,ndt)] avevano ruoli espliciti. Scritti ironici contro gli ideali e le speranze naïve sulla civiltà di progressisti e liberal erano pubblicati insieme alle critiche degli anarcosindacalisti. Cosa che si rivelò importante visto che gli antifa (tendenza molto in voga negli anarchici statunitensi e non solo, ndt) hanno la tendenza a rimanere aggrappati all’ideologia anarcosindacalista dell’IWW senza troppo pensare.


Detto questo, certamente gli scritti anti-civ non passavano inosservati. In particolare una lista di 20 richieste in mezzo alle innumerevoli fatte dalla Comune. Variavano dalla distruzione delle dighe, al compostaggio della polizia, un mattone per ogni vetrata, persino una spazio lasciato in bianco, a quelle più ironiche tipo “fino a che esisterà la scienza, uno di noi sarà dotato di uno scheletro di adamantio, “far esplodere il sole”, e per il segretario comunale Steve Hall, che possa “combattere un orso”.iii

Insieme al numero dei comunicati, c’è molto altro.

Nella rapida trasformazione della rinvigorita protesta di Olympia nella Comune di Olympia (con tanto di cucina, aree di residenza e di lavoro, proiezioni [come il documentario Unicorn Riot’s anti DAPL,Black Snake Killaz] e spettacoli), c’è era una relazione diretta con la resistenza indigena comunitaria all’estrazione e distribuzione di combustibili fossili. La stessa Comune era parte di quella pratica. Più apertamente, i partecipanti chiedevano con veemenza: “e quindi come facciamo a trasformare il blocco in un modello che rispecchi il modo in cui vogliamo vivere,di come vogliamo trattarci gli uni con le altre, e dicome vogliamo che sia organizzata la società?iv

E visto che c’erano sempre più di un centinaio di persone nella Comune, questa domanda era presa sul serio.

E con così tante visioni differenti, cosa spingeva tutta quella gente laggiù? Tra le parole delle dichiarazioni collettive, queste sembrano riassumerle al quanto bene:

Vogliamo inviare un saluto ed esprimere solidarietà con la resistenza indigena al capitalismo in espansione a Turtle Island. Dalle terre delle tribù dei Nisqually e Squaxin, alle coste di Wedzin Kwah nel territorio Unist’ot’en, fra le mura della Tiny House Warriors del territorio Secwepemc, alla lotta dei Mi’kmaq nella penisola di Gassepie, vogliamo riconoscere e onorare coloro che lottano per la propria terra e coloro che lottano contro la mega macchina industriale, al nostro fianco, vicini e lontani. La nostra lotta contro i proppant per il fracking è anche una lotta contro gli oleodotti LNG, la Keystone Oil e molte altre; ma più ampiamente la lotta contro l’estrattivismo industriale è una lotta contro il colonialismo.v

Mentre la Comune prendeva vita propria, non c’era dubbio sul perché si trovasse lì in quel luogo e in quel momento. Come si sarebbe ripetuto sempre di più, la Comune si ergeva per bloccare fisicamente la civiltà. Sorgeva sulla ferrovia, da dove partivano le sue richieste perazioni solidarietà, chesono state ascoltate.

Ad Atlanta, in solidarietà, due boutique in una zona gentrificata della città furono distrutte. Nell’area di Oakland, le line ferroviarie furono messe temporaneamente fuori uso “cortocircuitando i circuiti dei binari con i cavi della batteria dell’auto”. A Meltford, Oregon, il traffico ferroviario è stato bloccato e interrotto da alcuni auto proclamati anarchici che “hanno usato del filo di rame per segnalare un blocco.” Ricordandoci che: “le ferrovie sono facilmente accessibili ovunque. Il sabotaggio è divertente e facile.”vi

Apparentemente non collegato alla Comune, un comunicato anonimo per un azione “fatto in solidarietà con i difensori indigeni” ha bloccato le line ferroviarie lungo le rive del Columbia. Bloccare “il flusso di carbone, petrolio, legname e sostanze chimiche.” Ancora,

I treni sono stato fermati attaccando dei cavi ai binari in vari punti. I treni sono stati fermati almeno per diverse ore e forse di più. Per portare a termine l’azione c’è voluta meno di un’ora, circa 40$ di materiale, e quasi nessun rischio di essere arrestati.vii

Le ferrovie, le vene dell’industria, attraversano i territori ovunque. E sono soggette a metodi di sabotaggio alquanto semplici ma impattanti. Non c’è bisogno di una Comune per agire, ma è chiaramente una buona ispirazione.


La cosa più importante riguardo questi eventi è che nessuno è stato arrestato. Almeno, non ancora. Inevitabilmente seguiranno le gran giurì, gli informatori e un mix di sorveglianza privata e statale. A differenza del finale movimentato della protesta del 2016, quest’anno i comunardi hanno avuto una soffiata prima del raid di sgombero. Gli occupanti hanno optato per un’evacuazione silenziosa della Comune nella notte, lasciando ad uno squadrone di polizia fortemente militarizzato e pronto alla guerra un campo vuoto,costringendoli a subire gli insulti degli anarchici dal marciapiede senza poter effettuare un solo arresto. Nell’impertinente quarta edizione della “Comune contro la civiltà”, questa è stata una vittoria:

ci siamo divertiti immaginando le loro mani tremolanti infilate nella loro attrezzatura pronte all’uso, innervositi, ritrovandosi infine un campo vuoto. Molto meglio rimanere forti per il nostro prossimo appuntamento, ora e luogo a nostra scelta.viii

In un era dove le proteste via social network tentano di giocherellare nel vero mondo dell’attivismo, qui abbiamo visto il risvolto positivo che gli anni riottosi dei primi anni 2000 speravano di produrre: un obbiettivo mutevole e imprevisto, che diventa sempre meno vincolato alle circostanze e allo spazio, che è capace di evitare le trappole dell’attivismo e delle politiche della… bè della politica.

Sotto il peso dei macchinari industriali e sotto gli occhi di sbirri militarizzati, la Comune è stata fisicamente fatta a pezzi. Ma la Comune non se ne è andata. Non vedo l’ora del suo ritorno e della sua diffusione.

E spero sempre di vedere Steve Hall cercare di combattere con un cazzo di orso.

Note

https://washingtonpost.com/news/morning-mix/wp/2017/11/29/anti-fracking-activists-and-anarchist-are-blocking-rail-tracks-in-olympia-they-dont-plan-on-leaving/?utm_term=.f01ddb8f0b16

ii The Olympia Communard. No 1, 27 Novembre 2017. https://pugetsoundanarchists.org/wp-content/uploads/The-Olympia-Communard.pdf

ii iIbid.

iv Puget Sound Anarchists, “How do we Turn Olympia Stand into the Olympia Commune.’ https://itsgoingdown.org/turn-olympia-stand-olympia-commune

v Comunardi

Come gatti

Come gatti

Produciamo un tipo di suono
per confortare il nostro cucciolo
o noi stesse nei momenti di bisogno e insonnia

un ronzio,
tipo una canzone,
una vibrazione senza parole,
un riverbero che ci riempie il petto
e batte al ritmo dei nostri cuori pulsanti

Canticchiamo le ninnananne che ci cantavano le nostre madri, e
che le loro madri e madri e madri cantavano loro.
Canticchiamo le canzoni che ascoltiamo, quelle che creiamo.
Canzoni piene di poesie, archi, accordi, bassi, acuti, e cose simili.

Canticchiamo le canzoni composte dalla Terra, la tonalità del frinire del grillo, la cadenza del richiamo della cicala,
il canto dell’uccello, il sibilio del vento,
le creste delle onde dell’oceano.

Canticchiamo, calme, come un sussurro,
o forte, per sovrastare i suoni del traffico al di fuori,
il richiamo delle voci dall’altra parte della strada sottostante.

Il nostro brusio è abbastanza potente da alleviare le paure
abbastanza forte da riempire i vuoti della solitudine,
della nostalgia, della perdita. Abbastanza luminoso da illuminare una notte buia e scacciare i nostri incubi.

Il nostro brusio significa conforto. Il nostro brusio dice
“sei al sicuro, qui in questo luogo, in questo momento, con me.”

Sei al sicuro. Sei al sicuro. Sei al sicuro. In un abbraccio.

E sei amata.

Vieni. Sorella, fratello. Appoggia la testa sul mio petto e
appoggerò la mia sul tuo. Canticchieremo, serenamente.
Semplicemente.

Come gatti.

Grazie per l’ascolto,
con amore,
Natasha

Titolo originale “Like Cats”
Tratto da https://theyearofblackclothing.wordpress.com

Natasha Alvarez è l’autrice di Liminal tradotto e pubblicato da Hirundo (2017)


Pensare come un foresta

di Janet Kent

Due betulle gialle si uniscono a un vecchio troncone di castagno americano

Ci raccontiamo storie per dare senso al mondo. Lo facciamo soli, come individui e insieme come società. Le storie che raccontiamo come società, e, uno per volta, quelle che raccontiamo come individui, riflettono i valori della nostra cultura. Riconosciamo quest’insieme come storie quando queste prendono la forma di mito, leggenda o racconto popolare. Siamo meno propensi a vederle come storie quando prendono la forma di insegnamenti religiosi, dell’opinione comune, di una lezione di storia o anche, della scienza.

Innanzitutto, sono consapevole che non è il momento migliore per mettere in discussione la scienza in quanto il settore è sotto attacco da parte di chi non vuol compiere quei passi importanti per mitigare il cambiamento climatico. Non voglio aggiungere benzina sul fuoco. Ma voglio, tuttavia, dare uno sguardo ai modi in cui la scienza è messa in atto e interpretata da parte dell’ordine e dall’ideologia dominante.

Un famoso esempio storico di questa influenza è l’utilizzo della teoria di Charles Darwin sulla selezione naturale da parte dei teorici sociali. Darwin, come molti di voi sanno, ha sviluppato la sua teoria osservando le diverse caratteristiche fisiche dei fringuelli nelle isole Galapagos. Osservò gli individui all’interno delle specie che meglio si erano adattati al loro ambiente dove si erano riprodotti per determinarne quindi il fenotipo della specie.

Quasi subito, dopo la pubblicazione della sua teoria, i teorici sociali sfruttarono questo concetto per spiegare il motivo per cui alcune razze e classi sociali fossero più portate a dominarne altre. Questi teorici, chiamati darwinisti sociali da parte dei loro oppositori, conclusero che gli Europei bianchi e benestanti erano geneticamente superiori alle altre tipologie di persone. Utilizzarono questa teoria per giustificare le brutalità della colonizzazione europea. Curiosamente, molti di questi teorici erano creazionisti e non accettavano le teorie di Darwin per come erano applicate a umani e animali, tuttavia trovarono l’estensione delle sue teorie utili per rinforzare le politiche di supremazia bianca.

Darwin stesso non era d’accordo all’applicazione della sua teoria alla società umana. Sfortunatamente, il lavoro dei darwinisti sociali ha avuto un’influenza più persistente di quella del biologo. Di fatti, il termine “la sopravvivenza del più adatto” fu coniata da Herbert Spencer, un sociologo e creazionista, per spiegare il motivo per cui alcune tipologie di persone dominavano altre. Il cugino di Darwin, Francis Galton, ha fondato il movimento eugenetico, la filosofia utilizzata per sostenere degli orrori come la forzata sterilizzazione dei poveri e delle minoranze e le scuole residenziali per i bambini e le bambine indigene qui negli Stati Uniti tanto quanto le politiche si sterminio di quelle persone considerate geneticamente inferiori nella Germania nazista.

Non tutti nel tardo ‘800 hanno aderito alle idee dei darwinisti sociali o con Darwin stesso. Dopo la pubblicazione della teoria di Darwin sulla selezione naturale, un uomo chiamato Peter Kropotkin, un aristocratico russo e biologo amatore (e anarchico, ndt), si mise in viaggio nelle zone selvagge della Siberia per osservare sul campo le teorie di Darwin. Nonostante vide in azione la competizione in natura, vide anche una notevole quantità di cooperazione. Di fatti, Kropoktin vide che la cooperazione, o mutuo appoggio come lui la definì, è il fattore essenziale per la sopravvivenza sia degli individui che delle specie animali. Osservò che la socialità è tanto una legge di natura quando lo è la lotta reciproca. Il suo libro è pieno di esempi che sostengono le sue tesi e il suo lavoro è stato sostenuto e abbracciato da parte di biologi evoluzionisti contemporanei come Stepen Jay Gould. Eppure si continua a enfatizzare il ruolo della competizione all’interno della natura sminuendo nel frattempo il ruolo della cooperazione. Come mai?

In questo paese, una delle storie più potenti è quella della supremazia dell’individuo. L’immagine americana tipica, l’emblematico cowboy solitario, fuori dalla norma, tenace e completamente autosufficiente è incisa profondamente nella nostra psiche. (Poco importa che l’esistenza del cowboy è dipesa dalle politiche governative di rimozione degli Indiani, dell’accaparrarsi gratuitamente la terra, dalla costruzione delle ferrovia.) Il culto americano dell’individuo permea il campo dell’indagine scientifica, raggiungendo persino i campi della botanica e dell’ecologia che in apparenza sono dei campi indipendenti, anche se, per fortuna, questa cosa sta cambiando.

Fatemi raccontare una storia famigliare. La storia di un albero. Questo potrebbe essere il tipico albero da giardino, da parco o quello che fa ombra sulla strada. Sta lì, solitario; tutti gli altri alberi nei dintorni sono stati abbattuti. Si è potuto allargare, crescere con una chioma rigogliosa bella tondeggiante con rami pieni di foglie. Mentre crescevo, e in realtà fino a tempi recenti, la scienza mi ha raccontato che quello era un albero rigoglioso e perfino felice. Capace di dominare lo spazio che abitava, espandendosi con radici e chioma per poter prendere tutto il sole, l’acqua e i nutrimenti possibili e tenendoli per sé. Tutti gli alberi si comporterebbero così se potessero, ci viene raccontato. Nella foresta, un albero deve competere con altri alberi per ottenere queste risorse. Ogni albero per conto proprio. Questo schema ha dominato l’indagine scientifica per quel che riguardava gli alberi fino agli ultimi due decenni. Allora, come spesso succede nella scienza quando emerge un cambiamento di paradigma, gli scienziati di tutto il mondo hanno iniziato ad osservare più in profondità le modalità con cui gli alberi assorbono e assimilano i nutrimenti. Attraverso un’ampia varietà di esperimenti, i ricercatori sono arrivati agli stessi risultati, che gli alberi in una foresta matura, con tutte le specie, condividono i nutrimenti. Gli scienziati hanno scoperto che gli alberi che hanno relativamente delle ubicazioni mediocri nella foresta, in terreni rocciosi o con un accesso limitato alla luce del sole o ai nutrimenti, hanno mostrato lo stesso grado di fotosintesi di alberi che nella stessa foresta hanno posizioni migliori. Come è possibile? Grazie alla rete micorrizica del suolo. Una vasta e intricata rete fungina che connette tutti gli alberi, scompone i nutrimenti del suolo che gli alberi non potrebbero assimilare da soli e distribuiscono e accumulano nutrimenti dal suolo e dall’aria che si trova tra di loro. Gli alberi della foresta utilizzano questa rete anche per comunicare quando sono minacciati. Se un insetto attacca un albero, l’individuo non è in grado di rispondere abbastanza velocemente per potersi difendere. Tuttavia può inviare dei messaggi sotterranei attraverso la rete fungina per avvertire gli altri alberi di aumentare l’asprezza nelle loro foglie o di inviare un richiamo di fenormoni benefici per richiamare insetti predatori.

Per queso servizio, per facilitare la ridistribuzione e la comunicazione tra gli alberi, questi condividono fino a un terzo degli zuccheri e dei carboidrati che producono attraverso la rete fungina. Lo scambio, la forza e la resilienza della foresta avviene grazie al cibo condiviso. È un sistema di mutuo aiuto tra vari regni. Quegli alberi solitari che riversano le loro grandi ombre nei giardini e nei parchi estendono le radici e le chiome per compensare l’assenza di connessioni. Fanno quello che possono, ma non possono rimpiazzare i nutrimenti condivisi e la difesa di una ricca e complessa rete di foreste.

Castagni Americani, primi del ‘900

Ora vorrei raccontarvi la storia di un altro albero. Questa è la storia del castagno americano. È probabile che abbiate sentito parlare della grande ruggine del castagno, forse il più grande disastro ecologico del XX secolo. Prima della ruggine, il castagno americano era l’albero dominante nella foresta orientale. Qualcuno ha stimato che un albero da legno duro su quattro nell’Appalachia era castagno. Questi alberi crescevano a più di 30 metri in altezza e 4 metri in larghezza. La ruggine arrivò tramite alcuni castagni cinesi piantati a Central Park nel tardo 1800. Durante la prima metà del XX secolo, più di 4 milioni di alberi di castagno sono morti per la ruggine. Mia madre nacque nel 1940 a Spruce Pine, NC. Durante la sua infanzia c’erano ancora abbastanza castagne nel bosco e suo padre ne portava a casa interi sacchi che raccoglieva nella sua camminata di ritorno dal lavoro dalla miniera di mica. Nel tempo in cui lei raggiunse l’età adulta i castagni e i loro cugini, la Castanea Pumila, erano scomparse. Il suono di questi giganteschi alberi che si schiantavano nella foresta era così diffuso che lo chiamarono Clear Day Thunder (Il tuono a ciel sereno, ntd).

Le radici e il colletto delle radici di questi alberi sono resistenti alla ruggine. Nel sottosuolo di tutte queste montagne, ci sono radici vive di castagno. Alcuni germogliano ancora. Crescono più o meno dai 3 ai 4 metri e mezzo in altezza per poi soccombere alla ruggine. Vivono raramente fino a poter dar frutto. Dove viviamo, su a Madison County, NC, c’è un boschetto di alberelli di castagno che spuntano dalle radici sotterranee vecchie di duecento anni. Li abbiamo guardati crescere per vari anni. Lo scorso autunno hanno raggiunto il loro limite e sono morti per la ruggine. Eravamo li nel boschetto a ripulire alcuni degli alberi morti quando abbiamo trovato a terra un riccio di castagno. Uno di quegl’alberi aveva dato frutto prima di morire. Ci siamo seduti in silenzio e con commozione, tenendo tra le mani quest’ultimo sforzo.

Riccio di castagno americano dal boschetto di rigetti sotto casa nostra.

Fino a non molto tempo fa, la storia diffusa di questi piccoli alberi di castagno che emergevano dalle vecchie radici è stata quella dei castagno americani in quanto individui, che sono così grandi e forti e quindi riescono a perdurare nel sottosuolo nonostante la ruggine. Ma ora sappiamo che queste antiche radici viventi e i loro periodici tentativi di irradiare nuova vita al di fuori della terra non è una testimonianza della forza individuale dell’albero o persino della specie. È una testimonianza del loro livello di connessione. La foresta circostante sta tenendo vivi questi castagni. Il frutto dell’immagine di poc’anzi è il frutto della connessione.

Mentre ci muoviamo verso un futuro sempre più incerto, dobbiamo ricordarci la lezione del Castagno. Ricordare che non è la vostra forza personale ma la forza delle vostre connessioni che vi nutre e vi fa andare avanti quando il disastro colpisce. Vi chiedo ora di esaminare le vostre storie. A chi servono? É tempo di dimenticare la narrativa ingannevole della supremazia dell’individuo. É tempo di pensare come una foresta. La rete della vita dipende da questo.

** Questo breve testo è basato da una discussione che ho tenuto per Rough Draught, una serie di letture tenuta dal Marshall Container Company a Marshall, NC.

Bibliografia

Darwin, Charles. L’origine delle specie.

Kuhnm Thomas H. The Structure of Scientific Revolution.

Kropotkin, Peter. Il mutuo appoggio: un fattore dell’evoluzione

Solnit, Rebecca. Savage Dreams: A Journey into the Landscape Wars of the American West
Wohlleben, Peter.
La vita segreta degli alberi: cosa mangiano, quando dormono e parlano, come si riproducono, perché si ammalano e come guariscono.

Tratto da: https://radicalvitalism.wordpress.com/2017/12/22/think-like-a-forest/

RADICAL VITALISM comprende gli scritti di Dave Meesters e Janet Kent (insieme a collaboratori occasionali). Janet e Dave portano avanti Medicine County Herbs, e sono due dei tre direttori e istruttori principali di Terra Sylva School of Botanical Medicine. Questi progetti hanno come base le montagne occidentali del North Carolina.