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La civiltà è una compilation di catastrofi
Traduzione con licenza poetica dell’introduzione al secondo numero di Oak.
Autunno 2020
Questa non sarà la piaga giustinianea che farà crollare Roma, e la popolazione non sarà falcidiata come nelle epidemie di civiltà più antiche. É proprio questo preciso fatto – nonostante il virus occupi una sorta di spazio liminale nella narrativa dominante – che rende precaria la civiltà infetta dal COVID-19, situata tra due scenari immaginari, senza per altro calzare in nessuno dei due. Il COVID-19 non è così mortale per la maggioranza della popolazione lavoratrice e sicché questa è la massa che costruisce e fa manutenzione a tutto l’ “impianto”, il lavoro deve continuare. È chiaro che, a livello globale, le risposte differenti alla pandemia dei vari Stati siano dovute a questa sua natura che va dalla malattia “normale” e innocua alla piaga altamente mortale, che ha ricevuto a tratti trattamenti rigorosi e repentini da parte dello Stato. Che questa poi non corrisponda a nessuna delle narrative dicotomiche non la rende fake o fasulla; è, semplicemente, un altro livello di questo momento di cambiamento accelerativo.
La pandemia è una fattore innegabile nello sviluppo e nella distruzione di una civiltà; non arriva per mano divina. Non è tanto un contesto buono per spiegare ogni cosa, come qualcuno ha proposto. È una conseguenza – una conseguenza sostanziale e fondamentale – della società di massa e della civiltà. Prende forma parallelamente, insieme e fra molte altre conseguenze. È un difetto di base, imprescindibile, che si è ripetuto molte volte negli ultimi 10 000 anni, e le pandemie devono essere riconosciute semplicemente per quello che sono; parte della panoplia, in continua evoluzione, dei fallimenti e delle menzogne della civiltà.
E mentre infuria questa piaga moderna continuano anche gli incidenti industriali e i gli errori tecnologici concomitanti. Il nitrato di ammonio lasciato in abbandono distrugge il porto di Beirut. Nuvole di gas nocivo invadono le aree devastate dall’uragano nel golfo del Messico. Quali altri disastri avranno luogo dalla data di pubblicazione di questa rivista? Semplicemente, quale altre tragedie incomberanno? Cosa potremmo aspettarci? Cosa attendere ansiosamente? Incendi, alluvioni, malattie, esplosioni; tutte cose che prenderanno forma sullo sfondo di uno scenario di disperazione inter e intra personale. Il tessuto sociale della tarda civiltà, tenuto insieme dall’identitarismo basato su posto di lavoro, chiesa, scuola e locale notturno preferito, si sta sgretolando e va via via assottigliandosi minacciando di usurare e squarciare fino in fondo il manto psicologico operativo di un paradigma divenuto ormai inutile.
Tutto ciò sta accadendo mentre il panorama politico a pensiero unico nelle città principali si sta uniformando alle tendenze politiche maggioritarie per le quali schierare assaltatori per le strade è diventato il manifesto di una guerra che è ormai chiaramente l’opposto di ogni tipo di liberazione. Le strutture di potere di questo mondo vanno espandendosi, prendendo la forma di metastasi man mano che il punto di vista delle masse diventa miope rispetto allo spargimento di sangue messo in atto per alleviare la disperazione quotidiana; una svolta verso la verità definitiva della morte dove la possibilità di una vita libera viene negata.
In queste scaramucce iniziali, la propensione millenaria per la guerra civile e la logica tautologica di chi ha più truppe di terra da poter schierare, non lasciano molto spazio per una ribellione contro gli Stati e le multinazionali che esercitano il grosso del potere nel mondo. Di fatto, queste forze sono spesso percepite come obbiettivi secondari sia dalle forze di sinistra che di destra.
Questa devoluzione settaria della resistenza è, sfortunatamente, un segno della tarda civiltà. Allo stesso modo, in America, gli osservatori distratti non sono riusciti a esaminare correttamente gli altri conflitti moderni, come quello in Siria, che ha mostrato il definitivo fallimento delle lotte settarie e la perseveranza delle strategie basate sull’auto-difesa geografica.
Ma continuiamo a lottare e ad usare il nostro telefono, fare razzie di iPads e forse persino trovare gioia nel saccheggio in stile berbero della struttura capitalista. James C. Scott, in Origini della civiltà, una controstoria, riportò una frase dei Berberi che diceva “la razzia è la nostra agricoltura”. In maniera simile, qualcuno potrebbe gioire con succinta felicità dicendo “razziare è il nostro capitalismo”. Ma qui, di nuovo, la mancanza di studio e considerazione di questa tattica si mostra per quello che è. I barbari diventano il “gemello oscuro” della civiltà che hanno saccheggiato e, similmente, la nostra resistenza, nata dalla pancia del leviatano stesso, deve resistere la tentazione di diventare la sua figlia oscura pronta a riarticolare di nuovo la sua eredità, vincolata da una patologia di consumo e comfort, controllo e addomesticamento.
Al contempo le tragedie personali continuano a moltiplicarsi. Morti da oppio, suicidi, solitudine, l’isolamento della socialità a distanza. Il luddismo offre un’altra via fatta di comunità concrete e autosufficienti, bolle di connettività che eludano la modalità commerciale del contagio. Sfortunatamente la risposta, fino ad ora, è stata al quanto reazionaria, quel tipo di libertà superficiale in stile americano, e non una strategia coerente di resistenza, diserzione e alternative visibili.
Gli anarchici sono stati coinvolti nella ciclica tragedia storica della violenza politica che serve solo a quella fazione delle élite di venditori di potere che vedono negli anarchici idealistici, e spesso naif, un utile strumento; milizie di terra incontrollate che, galvanizzate dalle tragedie reali, si cooptano in una lotta tra sette di produttori e impiegati, addomesticatori e falchi della politica.
Oak non sta dalla parte di nessuna di queste sette. I fascisti con le teste rasate sono un facile bersaglio, ma i rivoluzionari millenaristi potrebbero esserlo anch’essi. Non ci sarà la grande pulizia, non ci sarà una resistenza di massa con la propria narrativa, non ci sarà una mappa politica di cosa accettare e cosa rifiutare, nessun gergo linguistico da poter adottare per essere efficaci e nemmeno ci salverà il saper tirare le giuste corde del cuore. Non c’è nulla, se non il mondo che abitiamo – anche nel nostro patologico rifiuto della sua esistenza – un vivere, respirare, pulsare e pensare a ciò che siamo. Gettarsi dalla nave. Fanculo internet, staccare le spina, nutrire noi e la nostra comunità. Questo è il momento; come lo è sempre stato. Possiamo saccheggiare, razziare, rubare e difenderci; tutto ciò che rigetti questa centralizzazione, questa istituzionalizzazione di ogni nostro bisogno, desiderio e gioia. Abbandonare la nave significa anche farla affondare ed equipaggiare le comunità affinché siano sussistenti significa sbrigliare noi stessi e noi stesse dal bavoso tratto digerente del Leviatano.
Con spade e ami da pesca, fucili e cestini da raccolta… Oak
www.oakjournal.org